Femvertising e comunicazione di genere

Oggi intervistiamo Saveria Capecchi, autrice del libro “La comunicazione di genere. Prospettive teoriche e buone pratiche”. Professoressa associata per il settore scientifico-disciplinare “Sociologia dei processi culturali e comunicativi”, presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna, ha scritto libri e saggi e svolto ricerche su: teorie dei media, audience studies, media and gender studies (rappresentazione di genere nella pubblicità, nella fiction, nell’informazione), comunicazione in ottica di genere, che il prossimo 30 ottobre terrà una Lectio Magistralis per tutte noi della Community di Work Wide Women.

Tra le sue pubblicazioni più importanti ricordiamo “Identità di genere e media” e “L’audience attiva. Effetti e usi sociali dei media”: da cosa nasce la necessità di scrivere sulla comunicazione di genere?

Mi occupo di media e in particolare di rappresentazione di genere nei contenuti dei media. Da un paio d’anni tengo un corso denominato “Media digitali e genere” presso il corso di laurea magistrale che coordino Comunicazione pubblica e d’impresa. Innanzitutto, interagendo con studentesse e studenti ho sentito l’esigenza di chiarire una serie di concetti a partire da quello di “genere”, termine oggi circolante nella sfera pubblica con connotazioni spesso negative: penso alle associazioni ultracattoliche che condannano la cosiddetta “ideologia del gender” diffusa nelle scuole.

Ho sentito la necessità di delineare la storia del femminismo, termine e concetto su cui c’è molta confusione.

Nonostante si sia soliti pensare al femminismo di seconda ondata, quello degli anni ’60 e ’70, come “il” femminismo, il movimento delle donne è costituito da tante correnti di pensiero, anche in contrapposizione tra loro, ed oggi è riemerso nella quarta ondata a livello globale approdando sulla Rete. Inoltre, diciamo che nel tempo ho sviluppato una certa sensibilità nei confronti degli stereotipi di genere nella comunicazione culturale, che consiste nel reagire con sdegno di fronte a quella che mi sembra una strategia politica e del mercato mirata a svalorizzare il genere femminile, allo scopo di “tenere le donne al loro posto”, cioè nella sfera privata e in generale in una posizione subordinata all’uomo.

Includere i punti di vista femminili nella sfera culturale sia una questione politica, di rappresentanza di metà della popolazione, e anche una questione di pluralismo informativo.

Nel libro promuovo quindi una comunicazione di genere avulsa da stereotipi di genere, che tenga in considerazione il fatto di rivolgersi a un pubblico sia maschile sia femminile (compresa la comunità LGBT) e dunque una comunicazione inclusiva, volta a decostruire il “pensiero unico” presentato nei secoli come neutro e universale (cioè valido sia per gli uomini sia per le donne), mentre è sempre stato espressione dei soli punti di vista maschili.

Qual è lo stato della comunicazione di genere, oggi, in Italia e all’estero?

A partire dagli anni ’70, sono state effettuate molteplici ricerche sulla rappresentazione femminile nei contenuti dei media, sia all’estero, in particolare nei paesi anglosassoni, sia in Italia. Si può dire che a livello nazionale e internazionale ci sono stati nel tempo molti cambiamenti in positivo, ad esempio l’immagine femminile ancorata alla duplice figura della “casalinga” (la moglie) e della “donna-oggetto” (l’amante), frutto delle fantasie erotiche maschili, si è progressivamente trasformata negli anni 80 e 90 nella “donna moderna”, emancipata, indipendente, spesso in carriera, libera di gestire la propria sessualità. Figura che, pur gratificando maggiormente il pubblico femminile, in particolare le giovani, presenta comunque molti aspetti contraddittori, a partire dal fatto che la sua vita ruota attorno alla cura del corpo, alla bellezza come principale fonte di autostima (monitorata attraverso una perpetua auto-sorveglianza, se vogliamo utilizzare i concetti di Michel Foucault) e i suoi discorsi e comportamenti ruotano attorno alla ricerca del principe azzurro, del “vero amore” assecondando l’ideologia dell’amore romantico in senso tradizionalista. Le studiose inglesi di “genere e media” Rosalind Gill e Angela McRobbie hanno ad esempio messo a fuoco questa figura di donna che veicola aspetti sia femministi, sia anti-femministi, affermando che si tratta di una rappresentazione postfemminista.

Il termine “postfemminismo” ha molte accezioni di significato, in questo caso si tratta della “traduzione” nei contenuti dei media: un femminismo i cui principi si sono mescolati con gli imperativi economici del mercato, perdendo così la sua carica eversiva e politica.

Nelle serie televisive (ad esempio “Sex and the City” per intenderci o, più recentemente, “Girls”) e nelle pubblicità (quelle con donne bellissime e super sexy) troviamo immagini di donne postfemministe che veicolano una mescolanza di valori: parità/pari opportunità da un lato, e dall’altro consumismo e romanticismo in senso classico, quello che prevede la superiorità del ruolo maschile rispetto a quello femminile come indica la storia di Cenerentola.

Persino nella comunicazione politica è entrata l’ottica postfemminista, adottata dalle donne politiche stesse per autopromuoversi.

Da Alessandra Moretti che qualche anno fa propagandava la necessità per le donne politiche di essere belle oltre che brave (la “filosofia” ladylike utile a svecchiare l’immagine delle donne di sinistra), a Maria Elena Boschi, la quale di recente ha prestato volto e corpo alla rivista per soli uomini Maxim, fotografata in pose sexy anche sotto le lenzuola da Oliviero Toscani. Persistono poi ancora parecchi punti dolenti: gli stereotipi di genere abbondano nella pubblicità con le donne nel ruolo di madri e mogli accudenti, così come nel genere dell’informazione, laddove gli esperti in qualunque ambito del sapere sono uomini. Ad esempio, dalla ricerca internazionale del Global Media Monitoring Project del 2015 – un monitoraggio quinquennale svolto sui media mainstream di più di 114 paesi nel mondo – si evince che le donne di cui si parla o alle quali si dà voce nelle interviste, sono solo il 24%,  mentre gli uomini  sono il 76%.  

Femvertising: come si inserisce nel panorama della comunicazione di genere? Da dove nasce il fenomeno del Femvertising e come può aiutare le donne?

Il Femvertising è una tendenza recente nel panorama culturale, ed è uno dei tanti volti della rappresentazione femminile postfemminista veicolata dai media e in generale dall’industria culturale, della pubblicità e della moda. Rispetto ai testi culturali postfemministi, il Femvertising pone maggiormente l’accento sull’empowerment femminile, cioè sui principi femministi di parità/pari opportunità. In particolare vengono richiamati alcuni concetti caratteristici della quarta ondata del femminismo, “inclusività” e “intersezionalità”, nel momento in cui si raffigurano donne di ogni età, ceto, colore della pelle, orientamento sessuale e cultura.

Il termine Femvertising nasce nel 2014 (durante un dibattito moderato da Samantha Skey, Direttrice Marketing del sito SheKnows Media) e sta a indicare il connubio tra il femminismo e la comunicazione pubblicitaria.

Valorizzare le donne fa vendere. Sebbene l’intento delle campagne di Femvertising che oggi circolano sulla Rete sia commerciale, nel momento in cui incontrano il favore di quella parte di pubblico stufa di osservare nei contenuti dei media gli stessi stereotipi di genere o sempre il solito e unico idealtipo di bellezza (quello della donna snella), ci si può immaginare che nel lungo periodo questi messaggi che incitano le donne ad innalzare la propria autostima possano produrre un qualche cambiamento culturale. Mostrare attraverso le bambole Barbie modelli femminili forti e autorevoli come sta facendo la Mattel, incitare le donne a fare sport con determinazione come fa la Nike, a non chiedere sempre scusa per ogni cosa come spinge a fare Pantene, a sentirsi sexy anche con un corpo voluminoso come fanno le campagne con le modelle curvy, sono tutti messaggi positivi indirizzati alle donne: è ovvio che, oltre a ricavare profitti economici sfruttando la retorica femminista, si tende quasi sempre a fare derivare l’autostima femminile al corpo e alla bellezza e non ad altre qualità o a “colpevolizzare” le donne incapaci di avere autostima.

Quali sono, in generale, gli strumenti per risolvere i problemi di genere? Da dove partire per evitare il retaggio culturale?

Prima di tutto bisogna partire dall’educazione, dalla formazione dei bambini e delle bambine. In realtà bisognerebbe fare formazione a tutte le età, non è mai troppo tardi per riflettere sui condizionamenti culturali che ingabbiano donne e uomini in comportamenti, ruoli e caratteristiche tradizionalmente ritenute “femminili” e “maschili”. Chiamiamola come vogliamo, educazione alle differenze o educazione al genere. Formazione necessaria per tutti e tutte coloro che si occupano di media e di comunicazione in senso lato, dai giornalisti e le giornaliste in poi. Va detto inoltre che nel mondo del lavoro, a livello aziendale, sta cominciando a farsi strada la teoria della Womenomics, secondo la quale le donne sono il principale motore dell’economia mondiale: aumentare il tasso occupazionale femminile innalzerebbe il PIL di un paese e contribuirebbe al contempo a fare aumentare il tasso di fecondità (in sintesi più lavoro femminile = più figli).

In nome della Responsabilità sociale di genere molte aziende in Italia stanno cominciando a offrire nuove opportunità di lavoro e carriera per le donne (aumentano i tempi dei congedi parentali, introducono smart work e orari flessibili, ecc.).

Qualcosa si sta muovendo, pensiamo anche al fatto che alcuni uomini potenti, autori di molestie sessuali stanno “cadendo” grazie al movimento MeToo…

Come si è evoluto il nuovo femminismo?

Oggi è composto di tantissime micro-correnti, ma alcuni aspetti sono condivisi: l’utilizzo della Rete, il tema delle molestie sessuali e in generale della violenza di genere che sembra essere diventato il tema che oggi unisce le donne come un tempo lo era la battaglia per il diritto di voto. Un aspetto davvero nuovo è poi l’apertura agli uomini che cominciano a unirsi alla lotta contro la violenza di genere. Potremmo dire che è inclusivo di ogni differenza soggettiva e intersezionale, cioè considera la sovrapposizione di diverse identità sociali e le relative possibili discriminazioni (ad esempio quelle legate all’appartenenza di genere, al ceto, all’orientamento sessuale, alla religione, al colore della pelle, ecc.).

Come afferma Nancy Fraser, filosofa e giurista statunitense, in un momento storico in cui il modello neoliberista sta perdendo terreno, le nuove generazioni femminili, esperte della Rete, potrebbero fare rinascere quelle politiche rivendicazioniste che hanno caratterizzato il femminismo di seconda ondata, a patto, a mio dire, di portare avanti battaglie collettive, non cedendo all’individualismo sotteso alle campagne di Femvertising, empowerment femminile per un vantaggio personale e non per modificare la società.

Ringraziamo di cuore Saveria Capecchi per aver condiviso con noi questi importantissimi concetti: vi aspettiamo alla sua Lectio Magistralis del prossimo 30 ottobre 2018 presso TIM WCap a Bologna.

L’ingresso è libero, maggiori informazioni sull’evento Facebook a questo link.